Viaggio in Bosnia-Erzegovina - Scrittori bosniaci

La letteratura bosniaca in quanto tale nasce per contrapposizione alle identità serba e croata con la dissoluzione della ex Iugoslava. Come lo stesso bosniaco, è più un'entità sociologica e politica che linguistica: prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina non si era mai utilizzata l'espressione “lingua bosniaca”, e anche il termine “bosniaco” risulta comparire per la prima volta in un documento degli accordi di Dayton. Un tempo, infatti, tra la lingua della Bosnia ed Erzegovina e il serbo non venivano in genere percepite, dagli stessi parlanti, differenze realmente significative. Il primo documento scritto della zona risale al 1189, ed è una lettera redatta utilizzando l'alfabeto cirillico; altri testi medievali ecclesiastici in alfabeto cirillico sono conservati in una ventina di manoscritti. Il maggior corpus scrittorio del Medioevo della Bosnia ed Erzegovina è tuttavia inciso sulle migliaia di lapidi sepolcrali delle chiese e dei cimiteri del territorio (stecci). A partire dal Cinquecento, la dominazione ottomana diffuse nella regione la cultura araba: una certa produzione letteraria slava venne anzi scritta in caratteri arabi (alhamiado). Solo con il romanticismo del pieno Ottocento anche in Bosnia si avviò una certa coscienza nazionalista, che indusse alcuni ricercatori a documentare e a raccogliere le tradizioni orali e leggendarie della regione. Nel Novecento, gli scrittori nati in territorio bosniaco, come Ivo Andriċ, sono sempre stati considerati autori della letteratura serbo-croata, una categoria che prima dell'odio interetnico comprendeva naturalmente anche la lingua e le opere della Bosnia ed Erzegovina; solo con la disgregazione della ex Iugoslavia e, soprattutto, con la guerra civile, si è avviato un processo di radicalizzazione delle identità che si è tradotto in scelta di campo anche linguistica e letteraria. Non tutti gli intellettuali di nascita bosniaca, tuttavia, condividono questo nazionalismo di fondo. Rivendicano la propria identità bosniaca, e quindi non-serba né tantomeno croata, sia pure con toni pacati scevri da retorica nazionalista e con sincera adesione al laicismo della cultura, il poeta Izet Sarajlić (1930-2002), autore di una trentina di raccolte, tra le quali spiccano Il libro degli addii e Diario di guerra di Sarajevo, il narratore e drammaturgo Abdullah Sidran (n. 1948), e il drammaturgo e saggista Dzevad Karasahan (n. 1953) – tutti portati in modo diverso a riflettere sul destino di Sarajevo e sulla fine della capacità di convivenza che aveva caratterizzato un tempo la vita della loro amatissima Bosnia – e il poeta Marko Vesović, serbo-bosniaco (n. 1945).

Autore: Nenad Velickovic

Titolo: Sahib

Edito da: Controluce

 

I diseredati d'Europa visti con gli occhi di uno schiavo del consumismo. Ambientato nella Sarajevo postbellica, Sahib narra, attraverso settantasette e-mail inviate dal protagonista al suo amante rimasto in patria, la storia di un giovane inglese giunto in Bosnia al seguito di una missione umanitaria. L'uomo, che osserva e giudica la società che lo circonda dall'alto della propria presunta superiorità e allo stesso tempo si trova a vivere la sua condizione di omosessuale in un paese estremamente conservatore e tradizionalista, trova nel suo autista, Sakib, un interlocutore sempre pronto a mostrargli le cose da un differente punto di vista. Satira pungente sulle contraddizioni, i falsi miti e le ottusità della società di massa occidentale, incapace di interpretare le differenze se non attraverso gli scontati cliché del modello consumista, questo romanzo punta il dito contro l'Occidente e le varie ong che sprecano tempo e risorse in progetti spesso surreali e di dubbia utilità.

Autore: Velibor Colic

Titolo: I Bosniaci

Edito da: Zanzibar

 

Come raccontare la follia? Come trasmettere la barbara ferocia di una guerra fratricida che ha sconvolto l'Europa all'alba del Duemila, se si è in parte causa e la propria vita, la propria gioventù, come quella di tutta una generazione, è stata spazzata via per sempre? Velibor Colic, rifugiato del campo di Slavonski Brod e oggi esule a Strasburgo, sceglie la via della freddezza e del distacco. Lo stile è quello asettico del verbale. Niente retorica, solo immagini: piccole storie che compongono il mosaico. Costruito in tre movimenti: persone, città, filo spinato, l'autore attraverso testi brevissimi, quasi degli epitaffi, di una economia che da scarna si fa subito poetica ci racconta quello che ha visto e ascoltato sulla guerra della ex-Yugoslavia. Ne scaturisce un agghiacciante resoconto che deve essere riconosciuto come uno dei più significativi e imporatnti mai scritti su questo conflitto.